Il 9 gennaio Twitter ha deciso di sospendere in modo definitivo il suo utente più famoso degli ultimi anni: Donald Trump. La decisione del social media è maturata dopo gli ultimi tweet del Presidente americano, nei quali aveva inizialmente incitato e poi sostenuto l’attacco compiuto da alcuni suoi sostenitori al Campidoglio americano con l’obiettivo dichiarato di interrompere la proclamazione del nuovo presidente, Joe Biden.
Cosa comporta questo ban?
La conseguenza più immediata e visibile è quella che Donald Trump sarà costretto a rinunciare, probabilmente a tempo indefinito, al suo social preferito. È importante effettuare due precisazioni, a mio avviso:
- è stato bannato l’account personale di Trump, non quello istituzionale riservato al Presidente degli Stati Uniti
- il ban è avvenuto nonostante fosse in vigore una speciale regola di Twitter riservata ai capi di stato, che li “protegge” da segnalazioni di massa e consente loro di esprimersi più “liberamente” senza dover sottostare alla moderazione del sociaòl network.
Twitter non è stato l’unico social a rimuovere gli account di Trump, poichè anche Facebook ha provveduto all’eliminazione degli account sul social omonimo e su Instagram. Shopify ha eliminato gli store ufficiali del merchandising, ospitati sulla sua piattaforma. Di fatto, le grandi compagnie tecnologiche hanno preso decisamente posizione contro Trump.
L’ultima ad aggiungersi all’elenco è Amazon, che ha disattivato i server che ospitavano Parler, social molto noto negli ambienti di estrema destra e particolarmente apprezzato da Trump e i suoi sostenitori, a causa della molto blanda (per non dire quasi inesistente) moderazione dei contenuti. La scarsa moderazione dei contenuti in Parler ha portato all’eliminazione dell’app dall’App Store e dal Google Play Store.
Piccola nota divertente: il leader della Lega, Matteo Salvini, noto sostenitore nostrano di Trump, ieri sera ha annunciato la sua iscrizione a Parler. Poche ore dopo, Amazon ha disattivato i server che ospitavano il social.
Le 26 parole che alla base di Internet
Alla base di Internet come lo conosciamo ci sono 26 parole, presenti nella sezione 230 del Communications Decency Act dal Congresso degli Stati Uniti nel 1996, traducibili come:
Nessun fornitore di servizi internet e nessun utilizzatore di tali servizi può esser ritenuto responsabile quale editore o quale autore di una qualsiasi informazione che sia stata fornita da terzi.
Queste poche parole sono alla base dell’evoluzione di Internet, della sua struttura e della sua crescita. Queste poche parole sono anche alla base dei social media che tutti noi conosciamo e, almeno in parte, delle loro “particolari” politiche di moderazione.
Per approfondire l’importanza delle 26 parole, vi consiglio la lettura di questo articolo scritto da Carlo Blengino.
Il mio pensiero
Non credo che esista una risposta univoca alla domanda: “hanno fatto bene i social network a bannare Trump?”. Il problema non è solo ed esclusivamente legato al ban in sé, almeno secondo me. Il problema è legato a diversi aspetti della vita quotidiana, sia offline sia online.
Come facevo notare poco fa, Twitter non ha bannato l’account istituzionale della presidenza degli Stati Uniti (@POTUS), ma quello personale di Donald Trump. La differenza può sembrare una questione di lana caprina, ma è comunque importante a mio avviso. Non si tratta (al contrario dell’assalto a Capitol Hill) di un attacco alle istituzioni americane, ma di una misura rivolta contro una singola persona. Con 88 milioni di follower, ma una persona.
Indubbiamente Twitter e gli altri social media (ma soprattutto Twitter) hanno approfittato dell’esposizione fornita loro da Trump, ma hanno avuto anche il coraggio (tardivo, a mio avviso) di mettere un freno all’esposizione social dell’ormai ex presidente. Ciò che stride è il fatto di aver agito solo nell’ultimo periodo, prima limitando o segnalando post e tweet contenenti imprecisioni e fake news, sospendendo gli account poi. Inoltre, sembra quasi che ne sia stato “punito uno per educarne cento”, dato che non vi è traccia, almeno al momento, di grandi azioni di moderazione rivolte agli innumerevoli account, gruppi e pagine che su quegli stessi social hanno approfittato di queste piazze virtuali per organizzare l’assalto e per diffondere fake news e teorie del complotto.
Un’azione di moderazione a questi livelli verrebbe probabilmente festeggiata da buona parte della popolazione di internet con gioia, dato che significherebbe un depotenziamento di contenuti aggressivi, razzisti e complottisti non indifferente. Allo stesso tempo verrebbe vista da chi la subisce come una sfida personale e un’epurazione compiuta dai Poteri Forti ai loro danni.
E avrebbero pure ragione, almeno in parte.
Restando in ambito USA, il Primo Emendamento alla costituzione americana garantisce la terzietà della legge rispetto al culto della religione e il suo libero esercizio, nonché la libertà di parola e di stampa, il diritto di riunirsi pacificamente; e il diritto di appellarsi al governo per correggere i torti. Di conseguenza, un’epurazione completa di post razzisti, teorie del complotto e altre cose simili rischierebbe di portare i social a una violazione dei diritti costituzionali. In America, ancor più che in Italia, i precedenti giuridici hanno una grande importanza nello sviluppo della giurisprudenza stessa. Un precedente che imponga ai social media di reintegrare contenuti e persone legate, per esempio, alle teorie del complotto, avrebbe un’importanza molto maggiore rispetto allo stesso fatto ma ambientato in Italia.
Per contro, le tech company si sono dimostrate spesso e volentieri poco ricettive di richieste di cancellazione di account e pagine provenienti dai tribunali di diversi stati. Vero è che la richiesta di un tribunale non garantisca la totale certezza che si tratti di una richiesta giusta. Per fare un esempio estremo, se Hitler avesse avuto a sua disposizione i social, una richiesta di chiusura proveniente da un tribunale nazista di una pagina che promuovesse la cultura ebraica sarebbe stata legale, ma non sarebbe stata giusta. Un esempio più contemporaneo è dato dalle richieste provenienti da diversi tribunali italiani di rimozione di contenuti per apologia di fascismo, non rimossi dai social. Per contro, la rimozione della pagina Facebook di Casapoud, rimossa per violazione delle policy, è stata oggetto di una sentenza di reintegro da parte di un tribunale italiano perchè “il soggetto che non è presente su Fb è di fatto escluso (o fortemente limitato) dal dibattito politico italiano“.
Termini di servizio
Un aspetto ulteriore da tenere è che, anche se al momento dell’iscrizione non ci facciamo particolarmente caso e non li leggiamo, ogni nostro rapporto con i social media è regolato dai ToS (Term of Service). Come riportato sul siti di Iubenda, i Termini di Servizio sono:
I Termini e Condizioni, cui spesso si fa riferimento come Termini di Servizio, Termini d’Uso, Termini di Utilizzo, Condizioni Generali o Note Legali, sono il documento che disciplina il rapporto contrattuale fra il titolare del servizio fornito dal sito/app e l’utente. I Termini e Condizioni altro non sono dunque che un “contratto” in cui il titolare chiarisce, nero su bianco, quali sono le condizioni di utilizzo del proprio servizio, come quelle relative all’uso dei contenuti (copyright), alle regole che gli utenti devono seguire per interagire tra loro all’interno del sito/app, alle eventuali modalità di cancellazione o sospensione dell’account ecc.
Data questa definizione, possiamo ipotizzare di essere più o meno tutti concordi nel fatto che chi non rispetti le regole possa essere allontanato in forza di quelle stesse regole.
Si apre però una discussione interessante su questo stesso diritto quando ad esercitarlo sono le aziende grazie alle quali passiamo buona parte del nostro tempo online. Sono queste stesse aziende autorizzate a far rispettare le proprie policies quando il dibattito pubblico e politico ne viene leso? O al contrario, sono autorizzate a non rispettare richieste provenienti dai governi e dai tribunali?
Chiunque abbia la (s)fortuna di usare Facebook per lavoro sa benissimo come una chiusura arbitraria di account pubblicitari, pagine Facebook, account Instagram etc siano fin troppo comuni e causati da violazioni raramente chiare dei Termini di Servizio. L’assistenza Facebook, alla quale ci si rivolge per cercare di risolvere queste situazioni, non è esattamente nota per fornire informazioni e chiarimenti. Può un social che fa largo uso dei dati degli utenti per guadagnare avere l’autorità morale di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato quando non è intenzionato a fornire ai suoi stessi utenti un servizio chiaro?
Conclusioni
A mio avviso, un intervento da parte dei legislatori europei e americani in primis è auspicabile. Non solo per normare la privacy e l’utilizzo dei dati che tutti noi lasciamo ogni secondo in rete, ma per fornire un quadro morale ed etico entro cui regolare i rapporti fra utenti, governi e servizi tecnologici. Siano essi piazze virtuali come Facebook e Twitter, servizi di sharing economy come Uber e Just Eat o di turismo, come Airbnb. Con la creazione di un quadro normativo ed etico, soprattutto etico, di questo tipo, le azioni di rimozione dei contenuti da parte dei social network sarebbe inserita in un quadro più ampio e non solo all’interno di policies aziendali che sono soggette a modifiche unilaterali senza particolare controllo.
Un quadro del genere consentirebbe anche di fornire un quadro chiaro nel quale far evolvere il discorso degli algoritmi a cui demandare la moderazione “spicciola” dei contenuti stessi. Pochi giorni prima della fine del 2020, Rudy Bandiera sulla sua pagina Facebook aveva sollevato un discorso collegato, legato a come gli algoritmi reagiscono alle nostre azioni ai post aumentandone la diffusione.
Se una persona non è in grado di analizzare una notizia di un ritrovamento archeologico senza pensare a un complotto, come possiamo pensare di insegnare a un algoritmo la differenza fra giusto e sbagliato? O quella fra vero e falso?